Le tre Resistenze 75 anni dopo

“Abbiamo voluto raccontare la molteplicità della Resistenza, il suo essere costituita da tante spinte diverse, azioni differenti, partecipazioni ineguali ed eterogenee, ma convergenti […] verso un unico fine.”

Questo si legge nell’introduzione della voluminosa Storia della Resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli (Laterza, pp. 673, euro 35) uscito pochi mesi fa “nell’approssimarsi del 75° anniversario della Liberazione”.

Nello scorrere questo lavoro, suddiviso in diciotto capitoli tematici, non strettamente cronologici, ho individuato le mie tre Resistenze: la Resistenza armata dei partigiani, la Resistenza dei militari che si sono rifiutati di aderire alla RSI e la Resistenza civile di coloro che hanno affiancato clandestinamente la lotta armata con aiuti materiali o logistici.

Storia della resistenza

Su questi molteplici aspetti della Resistenza italiana si soffermano i due autori sulla base delle più recenti analisi storiche e su un approfondito e nuovo esame degli archivi e della documentazione oggi a disposizione. Quindi è una narrazione ben lontana dal racconto agiografico dei primi anni del dopoguerra, ma assolutamente opposta e contraria al revisionismo palese od occulto (vedi Pansa) che tende ad equiparare chi combatteva e moriva per la libertà con chi era dalla parte degli oppressori, dei torturatori e dei fucilatori.

L’opera quindi si sofferma e approfondisce anche temi cruciali e controversi, che anni fa erano quasi un tabù. Ripensiamo alle polemiche che nel 1991 accolsero il saggiodi Claudio Pavone Una guerra civile, espressione fino ad allora utilizzata solo dagli apologeti neofascisti. Flores e Franzinelli non hanno timore di affrontare questo e altri argomenti scottanti. Molto dettagliati sono i capitoli dedicati appunto alla così detta Guerra civile (Cap. III), ma anche alle Resistenze in chiaroscuro (Cap. XV) e ai Partigiani contro partigiani (Cap. XVI).

Il lettore, anche non specializzato, è condotto dai due autori con un linguaggio chiaro e piacevole lungo la storia dei venti mesi di occupazione tedesca. Un corredo di fotografie intertesto e numerosi testi, anche inediti, sono inseriti al termine di ogni capitolo.

Il saggio inizia con alcuni fatti poco noti legati agli infiltrati antifascisti inviati in Italia dal SOE britannico ancora prima dell’8 settembre, al fine di raccogliere informazioni militari e creare cellule politiche in vista della preparazione della campagna d’Italia. Tentativi praticamente tutti scoperti dal controspionaggio militare e finiti tragicamente con condanne a morte per spionaggio a favore del nemico davanti ai tribunali militari del Regno. Ciò non toglie di considerare questi personaggi come “antesignani” della Resistenza.

Uno dei capitoli iniziali è dedicato a Il tempo delle scelte e indica che “i due principali filoni alla base della Resistenza sono quello dell’antifascismo storico […] sopravvissuto tra carcere, confino ed esilio, e quello di una parte della gioventù, indottrinata nel ventennio mussoliniano e gettata al macello della seconda guerra mondiale, che passa risolutamente all’opposizione, sentendosi ingannata dal duce.”

Come ho detto, questa storia della resistenza è principalmente tematica e non cronologica, però al termine del volume è presente una dettagliata Cronologia che copre il periodo da gennaio 1943 a luglio 1945.

Appassionante è il capitolo dedicato alle Donne resistenti (Cap. IX), che “l’eccezionalità della situazione italiana del 1943-1945, con la sovrapposizione e intreccio di guerra di liberazione nazionale, guerra civile e lotta di classe, determina situazioni inedite di coinvolgimento femminile nello scontro totale in corso”.

La motivazione delle donne di partecipare alla lotta di liberazione è, secondo gli autori, una scelta del tutto libera e volontaria, a differenza dei loro coetanei maschi che “devono forzatamente scegliere tra l’arruolamento nella RSI, l’occultamento nella renitenza o la militanza nella Resistenza”.

La partecipazione delle donne è stata a lungo dimenticata o sottovalutata sia dalla politica che dalla storiografia del primo dopoguerra. Nella narrazione tradizionale “maschilista”, era riconosciuto alle donne un ruolo ancillare (staffetta, vivandiera, infermiera) tralasciando il contributo prettamente militare, che molte di loro ebbero all’interno delle unità combattenti. “Con il passaggio dalla guerra alla pace, la stragrande maggioranza delle partigiane e delle collaboratrici della Resistenza rientra nei ruoli consueti, in seno alle famiglie, in riconoscimento dei canoni patriarcali dominanti”. Malgrado si stimi che oltre 120.000 furono le donne coinvolte, tra combattenti e fiancheggiatrici delle formazioni armate o affiliate ai Gruppi di difesa della donna, pochissime ricevettero la “qualifica” di partigiano. Addirittura le brigate garibaldine impedirono loro di partecipare alle sfilate dopo la Liberazione. Nel libro è riportata la testimonianza di Tersilia Fenoglio Oppedisano: “Io non ho potuto partecipare alla sfilata, i compagni non mi hanno lasciata andare. Nessuna partigiana garibaldina ha sfilato. […] Poi ho visto i distaccamenti di Mauri [Divisione Alpina autonoma] con le donne che avevano insieme. Mamma mia per fortuna non c’ero andata anch’io! La gente diceva che erano delle puttane.”

Eppure le donne, se catturate, correvano anche rischi maggiori della tortura, carcerazione, deportazione o fucilazione. Tina Anselmi, allora diciassettenne staffetta della Brigata “Battisti”, rammenta nel suo volumetto di ricordi (La Gabriella in bicicletta, Manni Editori, Lecce 2019) che il suo comandante le aveva detto “Se ti prendono i tedeschi, prega che t’ammazzino perché altrimenti quello che ti faranno sarà peggio”.

Flores e Franzinelli non hanno la pretesa di dare giudizi conclusivi sulla guerra di Liberazione, piuttosto vogliono dare argomenti e spunti per una più vasta rilettura e valutazione dei fatti. Ad esempio si soffermano sulla difficoltà di instaurare un chiaro rapporto tra gli alleati e il CLNAI e le varie formazioni partigiane. Ma anche si soffermano sulla competizione tra il SOE britannico e l’OSS statunitense. Il timore degli inglesi è che anche in Italia si possa arrivare ad una situazione “greca”, dove la liberazione sfociò in una annosa guerra civile tra le forze governative e i partigiani comunisti, mentre gli americani tendevano ad utilizzare le formazioni partigiane italiane in semplici atti di sabotaggio dietro le linee, anziché in una vera guerriglia contro i tedeschi, avendo deciso, dopo lo sbarco in Normandia, di considerare il fronte meridionale come un fronte secondario. Tutti ricordiamo le infauste conseguenze sulla Resistenza italiana del “Proclama Alexander” dell’autunno 1944, che ordinava alle formazioni partigiane di sospendere ogni attività in attesa della ripresa dell’offensiva alleata nella primavera seguente.

I due autori dedicano ampie pagine del loro lavoro alla difficile situazione del confine orientale, dove alla lotta comune contro gli occupanti nazisti si sommano i contrasti tra i partigiani italiani e i partigiani jugoslavi sul futuro della Venezia Giulia e di Trieste, come anche il lascito di vent’anni di persecuzione fascista nei confronti delle popolazioni slovene e croate. “In questo ambito un ruolo importante, cruciale e apparentemente contradditorio, svolse il Partito comunista italiano. […] La spiegazione del comportamento del PCI, tutt’altro che lineare […] ha una spiegazione tutto sommato semplice, che risponde alla «doppiezza» incarnata dal partito soprattutto dopo il ritorno di Togliatti in Italia: […] «l’appartenenza consensuale del PCI a una scala gerarchica di comando, strutturata espressamente da Stalin sulla base della politica estera dell’Urss»”.

È in questo contesto che si pongono i fatti di Porzûs con i tentativi di insabbiamento per evitare accertamenti e le gravi diatribe sulle responsabilità delle foibe istriane del 1943 e del 1945, ancora oggi utilizzate strumentalmente dai neofascisti per gettare fango sull’intera Resistenza.

Ora vorrei soffermarmi sulla “Seconda Resistenza”, quella dei militari italiani lasciati alla mercé dei tedeschi senza alcuna direttiva da parte del governo Badoglio e degli alti comandi militari dopo l’annuncio dell’armistizio dell’8 settembre.

“La morte della Patria” è stato chiamato il disgregamento di un intero esercito. Per molto tempo si è sottolineato il “Tutti a casa” del film con Alberto Sordi e si sono invece trascurati gli innumerevoli episodi di resistenza attiva di intere divisioni e di interi reparti contro il disarmo ordinato dai tedeschi. Ci sono voluti decenni prima di ricordare i martiri di Cefalonia, di Corfù e di tanti altri episodi valorosi e tragici. Come ha ricordato Eric Gobetti nella sua conferenza del 3 maggio scorso, diverse decine di migliaia di soldati, al seguito dei loro ufficiali, formarono in Jugoslavia la Divisione italiana partigiana Garibaldi che combatté al fianco dei titini fino alla primavera del 1945 con perdite superiori ai diecimila caduti.

Dei circa 800.000 Internati militari italiani (IMI) in Germania solo una esigua percentuale accettò di arruolarsi nell’esercito della RSI per sfuggire alla penosa prigionia germanica. Ricordano Flores e Franzinelli “l’inserimento a tutti gli effetti degli IMI nell’ambito della Resistenza […] è stato colpevolmente ignorato per alcuni decenni dopo la fine della guerra, a livello politico come sul piano storiografico”.

A questo proposito mi permetto di inserire una nota personale.

Mio suocero, ufficiale pilota della Regia aeronautica, già aiutante di volo del Sottosegretario Generale Pricolo, l’8 settembre si trovava in licenza di convalescenza in Veneto. Rimasto senza ordini, decise comunque di riprendere servizio al Ministero dell’Aeronautica trasferitosi a Bari, supportato in questa decisione anche da suo fratello, addetto aeronautico aggiunto presso l’ambasciata italiana di Berlino, dalla quale era partito il 3 settembre 1943 (aveva subodorato qualcosa?). Messisi in borghese e partiti dal Veneto in bicicletta, attraversarono su percorsi interni la Romagna, le Marche e gli Abbruzzi. Dopo circa un mese riuscirono a passare la linea del fronte a Casacalenda in Molise, dove si presentarono al comando inglese di zona. Da qui furono accompagnati a Bari dove ripresero servizio nella Regia aeronautica.

Dal diario di mio suocero riporto alcuni brani che ritengo interessanti, perché si parla dell’incontro con i primi partigiani abruzzesi, forse gli embrioni della Brigata Maiella:

[...] Nessun tedesco si era ancora inoltrato in quella zona, dove invece si annidavano diversi giovani di Atessa e dintorni, armati di fucili e pistole. [...] Uscimmo dal paese percorrendo un sentiero nascosto. La mulattiera era molto fangosa, perciò fummo costretti ad avanzare lentamente. Arrivammo a destinazione dopo due ore e mezza di cammino, e alle prime case fummo fermati bruscamente da alcuni giovani che tenevano minacciosamente le armi puntate. Essi svolgevano un servizio di guardia tutt'intorno all'abitato, disseminato su una vasta zona collinosa, nascosta dietro a boschi di faggio e a una fitta vegetazione.
Al ristorante vi era un gruppo di giovani animosi e fra questi un capitano degli alpini, in borghese, con il distintivo del grado sul petto della camicia. Questi faceva grandi progetti e parlava di azioni patriottiche e di numerosi reparti di partigiani armati che si erano organizzati sulle pendici del Gran Sasso, in attesa di agire contro i tedeschi. (24.09.1943, Montalto delle Marche – Ascoli Piceno)
Nel gruppo di patrioti al quale eravamo stati ammessi come membri onorari, vi era un tenente medico siciliano, un giovane agente della Questura di Roma, alcuni studenti e il proprietario di una autorimessa di Atessa. (6.10.1943, Tornareccio - Chieti)

Dopo la Resistenza dei militari possiamo affrontare la Terza Resistenza, cioè quella “civile”, comprendente le italiane e gli italiani che, pur non avendo imbracciato le armi, si sono opposti direttamente o indirettamente ai nazi-fascisti. Nel libro di Flores e Franzinelli vengono indicati i vari aspetti di questa opposizione clandestina, si citano le centinaia di migliaia di contadini che, volenti o nolenti, assicurarono cibo e riparo ai partigiani a prezzo di sanguinose rappresaglie e vendette eseguite dai nazi-fascisti. Pensiamo non solo ai singoli casi, ma alle intere popolazioni passate per le armi come a Marzabotto o Sant’Anna di Stazzema.

Nelle città, dove operavano i GAP o le SAP, senza l’appoggio della popolazione civile non si sarebbero potute porre le basi per le loro azioni.

Nel saggio sono ricordati anche i numerosi interventi da parte delle istituzioni religiose, dei conventi e delle parrocchie dove trovavano accoglienza ebrei, oppositori politici, partigiani feriti, malgrado l’atteggiamento spesso contradditorio delle gerarchie ecclesiastiche. “Il numero degli ecclesiastici inseriti organicamente nelle formazioni partigiane è calcolabile nell’ordine delle poche decine di unità, mentre assai maggiore è quello dei sacerdoti che facevano saltuariamente la spola tra chiese, conventi e gruppi di ribelli. E ai quali fuggiaschi e ribelli si rivolgevano in caso di necessità, trovando soccorso”.

Ancora un ricordo personale di opposizione civile all’occupazione tedesca di Roma. Mio padre, iscritto alla Democrazia cristiana clandestina, faceva parte di un’organizzazione che si incaricava di produrre documenti falsi con i quali ex prigionieri alleati o renitenti alla leva fascista potessero raggiungere luoghi di rifugio (parrocchie, conventi, ecc.) o tentare di attraversare le linee per recarsi al Sud.

Nel ’43-44 ero troppo piccolo per avere ricordi diretti, ma dai racconti di famiglia so che a casa nostra si tenevano riunioni clandestine alle quali partecipavano cattolici antifascisti che sarebbero in seguito diventati protagonisti della Costituente e della vita politica nazionale, tra i quali ad esempio Giorgio La Pira.

Torniamo invece alla parte conclusiva della Storia della Resistenza di Flores e Franzinelli e in particolare all’ultimo capitolo Il doloroso percorso della pacificazione. Come ho già detto, i due autori affrontano da storici e non da polemisti il controverso periodo post 25 aprile. “Che tra il 1943 e il 1945 si sia svolta in Italia anche una guerra civile e non solo una lotta per cacciare l’invasore e l’oppressore straniero, lo certificano subito gli esiti immediati della Liberazione, caratterizzata da giorni, settimane e mesi di violenze diverse ma tutte riconducibili – in qualche modo – al contesto dei venti mesi precedenti. […] A esserne oggetto furono prevalentemente, anche se non solo, i fascisti che negli ultimi giorni avevano effettuato […] ulteriori uccisioni ed efferatezze.” Però, documenti alla mano, gli autori contestano la vulgata neofascista e revisionista che indicano in “trecentomila gli assassinati al Nord”, riportandola alla più veritiera e credibile cifra di circa 9.000-10.000 morti.

Una particolare attenzione viene posta alle conseguenze, anche nefaste, per la democrazia italiana della “amnistia Togliatti” e del mancato rinnovamento della struttura statuale – specialmente ai vertici del sistema giudiziario – che, invece di portare a una pacificazione attraverso giusti processi e giuste condanne, ha fornito praticamente una sorta di immunità a tutti i livelli, grandi e piccoli, del passato regime, “mantenendo invece inalterato il tasso di propaganda politica e ideologica, di accuse strumentali e autogiustificazioni, di propensione a giudicare piuttosto che a comprendere quel complesso momento della nostra storia”.

Agostino Botti

Magonza, maggio 2020

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