Un‘azione gappista nella Verona repubblichina
Verona è una città conservatrice da sempre, probabilmente fin dai tempi di Radetzky che ne aveva fatto la sua principale piazzaforte. Nel dopoguerra è stata un feudo della “balena bianca” democristiana, per poi passare al verde leghista e nell’ultimi anni virare decisamente al nero-verde. Nel maggio dell’anno scorso la sede ANPI di Verona, condivisa con l’Istituto della Storia della Resistenza, è stata oggetto di ben due atti vandalici consecutivi, che hanno prima distrutto la targa posta all’ingresso e poi asportato la bandiera tricolore posta all’esterno dell’edificio.
Lo stesso Mussolini nel 1938 ricordò “questa mia […] Verona […] romana, bersaglieresca, fascista nell’animo fin dalla vigilia” (pag. 153). Eppure il gonfalone scaligero è anche decorato con la Medaglia d’Oro della Resistenza in ricordo tra l’altro dell’assalto gappista al carcere degli Scalzi, che il 17 luglio 1944 liberò dalla detenzione il sindacalista comunista Giovanni Roveda.
Questo episodio è al centro del volume Un carcere, un assalto. Repressione fascista, gappismo e Resistenza a Verona. (Roma, viella 2019) a cura di Andrea Martini e Federico Melotto, composto da una serie di saggi che ambientano il racconto dell’episodio principale nella situazione storica del momento, confutando indirettamente le critiche qualunquistiche e criptofasciste sulla scarsa presenza resistenziale a Verona (“I partigiani si sono visti solo il 25 aprile!”).
Non possiamo dimenticare la presenza a Verona della sede principale della Gestapo e dei Servizi di Sicurezza tedeschi nell’Italia occupata. Come ricorda lo storico veronese Carlo Saletti “Verona occupa un ruolo di primissimo piano nella topografia del terrore, in termini di repressione politica e nella deportazione degli ebrei in Italia. Collocata vicino alle sedi del rinato governo fascista, si trasforma in poche settimane in città di prigioni.”
Non solo nel Carcere giudiziario degli Scalzi sono imprigionati i detenuti politici, ma anche negli ex-forti austriaci sui colli cittadini, nella sede in centro città della Gestapo (Palazzo INA) e nella caserma delle Camicie Nere vicino al Teatro romano.
Il protagonista silenzioso di questo ampio saggio è il Carcere giudiziario ricavato all’interno del convento dei Carmelitani Scalzi dopo la soppressione degli ordini religiosi avvenuta nel 1805, durante l’occupazione napoleonica del Veneto.
Nel Ventennio furono imprigionati in questo carcere molti oppositori del regime, ma è durante il periodo saloino che divenne famoso per avere ospitato nelle sue celle Galeazzo Ciano e gli altri membri del Gran Consiglio sottoposti al processo-farsa conclusosi con la fucilazione dei firmatari dell’Ordine del giorno Grandi il 24 luglio 1943. Quindi nella stessa prigione i repubblichini detenevano sia antifascisti che dissidenti fascisti e anche alcuni esponenti delle Forze Armate, che dopo l’8 settembre non aderirono alla RSI. Nel libro sono riportate alcune interessanti testimonianze dei contatti tra questi prigionieri di opposte idee politiche.
La liberazione di Giovanni Roveda è descritta in questo volume con un ampio saggio dello storico Maurizio Zangarini, presidente onorario dell’Istituto Veronese della Resistenza. Zangarini ricorda come fu difficile organizzare a Verona una resistenza efficace all’occupazione nazi-fascista per i motivi descritti sopra. Per due volte il CLN provinciale fu smantellato dai fascisti e i suoi membri inviati nei lager tedeschi.
In città il partito comunista riuscì a fatica ad organizzare un piccolo nucleo gappista, la cui azione più significativa fu la liberazione del sindacalista comunista. Roveda, condannato nel 1928 a 20 anni di carcere, poi confinato a Ponza e Ventotene, da dove fuggì nel marzo 1943, fu arrestato nel dicembre dello stesso anno dalla Banda Koch e arrivò agli Scalzi di Verona nel successivo gennaio ’44. Da quel momento il Partito comunista cominciò a organizzare un piano d’evasione inviando a Verona un esponente milanese, Aldo Petacchi, “perché era necessario un intervento esterno per guidare i volonterosi ma inesperti giovani del Gap locale”, scrive Zangarini.
Approfittando delle visite in carcere concesse alla moglie di Roveda, fu studiato il piano di evasione che si attuò nel pomeriggio del 17 luglio 1944.
Un commando di cinque gappisti veronesi, guidato dal Petacchi, arrivato con una macchina all’esterno del carcere, riuscì a penetrare con un sotterfugio all’interno, mentre Roveda era ancora in parlatorio dopo la visita della moglie. Colti di sorpresa, i secondini non riuscirono a fermare il prigioniero che poté quindi varcare il portone insieme ai suoi liberatori. Purtroppo, al momento di fuggire, si spense il motore della macchina che si dovette farla ripartire a spinta. Nel frattempo era iniziata una sparatoria da parte dei carcerieri, tre gappisti e lo stesso Roveda rimasero feriti. “L’auto crivellata di colpi, con una gomma a terra e sbandando continuamente, imboccò corso Porta Palio, corso Cavour e […] giunse infine davanti alla clinica del dottor Casu.” Lì scesero Roveda e due accompagnatori, di cui uno leggermente ferito. La macchina con i due feriti gravi a bordo (Lorenzo Fava e Danilo Preto) ripartì verso la periferia di Porto San Pancrazio dove il partigiano autista “Bernardino” la lasciò per andare a cercare soccorsi. Quando i soccorsi tornarono “i nostri compagni e la macchina non c’erano più”, i fascisti li avevano preceduti e avevano già trovato l’auto e i due feriti. Preto morì subito, mentre Fava, benché ferito, fu sottoposto a duri interrogatori e torture, ma ammise solo ciò che i fascisti già sapevano. Fava fu fucilato un mese dopo nello stesso poligono dove pochi mesi prima erano stati fucilati Ciano, De Bono e gli altri gerarchi fascisti.
Sia Fava che Preto furono insigniti di Medaglia d’oro alla memoria.
Giovanni Roveda, dopo le prime cure prestategli a Verona, fu trasferito a Milano e dopo la liberazione divenne il primo sindaco di Torino.
Su questa rocambolesca operazione, degna di un copione cinematografico, sono rimasti alcuni dubbi, in parte anche suffragati da alcune enigmatiche dichiarazioni di Roveda stesso: durante la sparatoria seguita alla fuga, chi ha ferito Roveda? Il direttore del carcere che sparava da una finestra del primo piano ovvero Roveda fu colpito da fuoco amico?
Del carcere degli Scalzi, distrutto durante il bombardamento alleato dell’11 ottobre 1944, oggi resta unicamente una parte del muro perimetrale dove è stata lasciata l’insegna originale di marmo con la scritta CARCERE GIUDIZIARIO. Sull’area dell’ex-convento sono stati costruiti eleganti condomini di abitazioni e uffici. Nel cortile interno c’è una stele d’acciaio a ricordo dell’assalto al carcere, mal sopportata dagli attuali abitanti, che ogni 25 aprile sono “costretti” ad assistere alle cerimonie commemorative di un sempre più sparuto gruppo di antifascisti militanti.
Magonza, aprile 2020
Agostino Botti