di Agostino Botti
Anche quest’anno la sezione ANPI di Francoforte partecipa alla cerimonia di deposizione di una corona in ricordo dei 4797 caduti italiani sepolti nel cimitero di Westhausen di Francoforte.
In terra tedesca, nei cimiteri militari italiani d’onore di Amburgo, Berlino, Francoforte sul Meno e Monaco di Baviera e in altri cimiteri minori, sono sepolte oltre quindicimila salme di nostri concittadini. Secondo il Ministero della difesa complessivamente 30.000/40.000 italiani perirono per malattia o denutrizione durante la prigionia in Germania e in Polonia o dopo la guerra, in conseguenza di questa.
La maggioranza dei caduti sepolti in Germania sono soldati internati dopo l’8 settembre 1943, ma ci sono anche centinaia di salme di donne, ragazzi e bambini (sic!) facenti parte dei circa trecentomila lavoratori (e lavoratrici) italiani inviati nel Terzo Reich in base agli accordi di collaborazione economica tra il governo fascista e il governo tedesco.
Come detto, la maggior parte dei caduti sono internati militari italiani (IMI) che, pur di non arruolarsi nell’esercito della neonata Repubblica Sociale, preferirono subire la prigionia in campi di concentramento, dove imperversavano violenza, fame e malattie.
Questi soldati preferirono affrontare il disprezzo (Badoglioverräter, come erano offensivamente chiamati) e la coercizione nazista anziché tradire il loro giuramento di fedeltà alla Patria. Dei seicentomila IMI “solo il 5% dei soldati e il 28% degli ufficiali internati uscirà dai Lager per arruolarsi nelle costituende forze armate fasciste.” (Franzinelli 2020)
Per molti decenni la storiografia sulla Resistenza si è concentrata principalmente sulla lotta armata dei partigiani in Italia, trascurando di approfondire l’importante apporto dei resistenti militari in terra straniera, malgrado la numerosa memorialistica prodotta da coloro che la vissero. Solo nella storiografia più recente, anche a seguito dell’impegno profuso dai Presidenti Ciampi e Napolitano, si trovano approfondimenti sull’importanza di questa resistenza primigenia.
Non soltanto a Cefalonia le truppe italiane si rifiutarono cedere le armi all’ex-alleato, anche a costo di venire tutti o quasi sterminati, ma anche a Corfù, nel Dodecaneso, nei Balcani e in numerose altre località si combatté fino all’ultima cartuccia, senza ricevere alcun soccorso dalla madre patria e dagli ignavi comandi dell’esercito.
Ricordiamo che nei Balcani molti militari italiani (fra i 30.000 e i 40.000) riuscirono a sottrarsi alla cattura e a raggiungere le zone controllate dai partigiani jugoslavi, dove vennero inquadrati in agguerrite formazioni combattenti. Così pure nelle zone alpine numerosi soldati italiani si unirono al maquis francese.
Coloro che non perirono immediatamente o che si sottrassero alla cattura vennero trasportati nei campi di concentramento in Germania. Numerose sono le testimonianze di ex-internati, famosi e non. Alessandro Natta (L’altra Resistenza, 1954) e Giovanni Guareschi (Diario clandestino 1943-1945, 1949) sono tra quelli più noti che lasciarono testimonianza della loro prigionia. Altre centinaia di memorie di semplici e umili internati militari sono raccolte nell’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano. Non sono arrivate alla notorietà, ma hanno lasciato una traccia nella storia dell’Altra Resistenza.
Mi voglio qui soffermare su un libriccino trovato tra le carte di mio padre, resistente cattolico nella Roma occupata dai nazisti, intitolato La croce tra i reticolati. Oggi si direbbe un “instant book”, perché scritto nel dicembre 1945 dal cappellano militare Giuseppe Barbero e pubblicato a Torino dalla S.E.T. nel marzo 1946.
Catturato con la sua batteria di artiglieria dopo “adunate, ambasciate, ordini, contrordini, colpi di cannone, e finalmente il 12 settembre, dietro ordini di comandi superiori, deponemmo le armi. Ci sentimmo tosto senza difesa e protezione, in balia di orgogliosi comandanti tedeschi.” In queste parole di Don Barbero ritroviamo tutto il dramma vissuto dai soldati italiani lasciati allo sbando dagli alti comandi militari.
Già durante il viaggio verso la prigionia erano giunte alle orecchie di Giuseppe Barbero le tragiche notizie delle prime stragi naziste a Corfù e a Cefalonia dove “più di 7000 soldati e tutti gli ufficiali, circa 500, sono falciati dalle mitragliatrici tedesche. […] Chi ricorda ancora questi eroi?” scrive il nostro cappellano militare nel suo diario.
Acquista quindi maggior valore la presa di coscienza dei nostri soldati che si rifiutarono di aderire nuovamente al fascismo, malgrado fossero “all’oscuro completo di quanto avveniva nel mondo” e nonostante che i tedeschi volessero “ad ogni costo la nostra adesione alla repubblica [sociale].”
“[Malgrado] lo spettro della fame, della vera fame, presa nel più crudo senso della parola” questi nostri connazionali continuarono per tutto il resto della prigionia a rifiutarsi di passare dalla parte dei fascisti.
In questo loro atteggiamento di diniego, i soldati erano incoraggiati dall’esempio dei loro cappellani che si rifiutarono apertamente di celebrare il 28 ottobre 1943 “una solenne funzione religiosa di intonazione fascista. Volevano festeggiare l’anniversario della marcia su Roma. Rifiutammo decisamente.”
Don Barbero ricorda con accorate parole le tante estreme unzioni somministrate ad “una lunghissima serie di Italiani morti di fame” e ricorda che “Solo i Russi erano trattati peggio di noi.”
Il 17 aprile 1944 scrive ancora il nostro cappellano queste strazianti parole: “Tutti i giorni muoiono: giovani pieni di speranze, ragazzi di vent’anni, padri di famiglia, studenti, tutti muoiono.”
Non vogliamo qui rileggere l’intero libretto di Don Barbero (tradotto nel 2001 in tedesco in occasione del gemellaggio tra Centallo di Cuneo, dove Giuseppe Barbero fu a lungo parroco e la città di Hagen, dove in una fossa comune riposano le salme di 50 IMI, di cui ha parlato anche Il Corriere d’Italia nel 2007), ma vogliamo solo ricordare le parole che chiudono il libriccino di Don Giuseppe:
“Abbiamo compreso pure che se l’Italia vuol essere ancora grande, bella e rispettata, non deve essere governata da un regime totalitario o settario, ma da un governo veramente democratico, che rispetti tutte le aspirazioni e le libertà di un popolo.”
Queste parole di speranza furono scritte immediatamente dopo la fine del conflitto da chi aveva vissuto direttamente sulla propria pelle tutta la tragicità delle scelte criminali della dittatura fascista e del rifiuto di accettarla.
La croce tra i reticolati, che racconta le vicende dei militari internati e del loro coraggio personale di non voler soccombere alla violenza nazista e fascista, ci fa dire che quella dei militari italiani dopo l’8 settembre non fu “l’altra resistenza”, ma fu “la prima resistenza”.
Agostino Botti
Sezione ANPI di Francoforte
Novembre 2022