«Domani partiamo per non so dove»

di Agostino Botti

Questa frase potrebbe essere il giusto sottotitolo del convegno “Italienische Arbeitskräfte für die deutsche Kriegswirtschaft 1938-1945” tenutosi presso JGU Mainz (Università Gutenberg di Magonza) all’inizio di dicembre di quest’anno.
La frase è invece contenuta in una lettera scritta nel settembre 1944 da un deportato politico veronese alla vigilia del suo trasferimento dal lager di transito di Bolzano verso il KZ di Flossenbürg, da dove non tornerà più a casa. La storia emblematica di Angelo Butturini, collaboratore del 2° CLN di Verona è raccontata da Roberto Bonente, storico dell’Istituto Veronese della Resistenza (IVRR), in un saggio così intitolato sui deportati politici della Valpolicella nei campi di concentramento tedeschi (CIERRE, Verona 2015).
L’utilizzo da parte della Germania nazista di deportati politici italiani quali lavoratori coatti nell’economia di guerra del Terzo Reich è uno dei temi discussi durante il convegno storico italo-tedesco di Magonza organizzato da Freia Anders dello Historisches Seminar JGU Mainz e da Brunello Mantelli, storico dell’ANRP (Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia) e docente all’Università della Calabria. Al convegno hanno partecipato numerosi studiosi e storici tedeschi e italiani con lo scopo di confrontare lo stato dell’arte della ricerca sul variegato fenomeno dei lavoratori italiani (volontari, forzati e schiavi) impiegati nel Reich prima e durante la Seconda guerra mondiale.

Per comprendere il fenomeno qualitativo e quantitativo dei lavoratori italiani bisogna prendere in considerazione lo spartiacque temporale “ante e post 8 Settembre 1943” e la suddivisione tipologica illustrata da Brunello Mantelli nella sua introduzione al convegno.
Mantelli individua quattro principali categorie di lavoratori italiani nel Reich:
1. Lavoratori emigrati in Germania tra il 1938 e il 1943, per un totale di circa 500.000 uomini e donne che hanno lavorato a turno principalmente in agricoltura e nelle costruzioni edili. Alla data dell’armistizio del 1943 erano presenti circa 100.000 individui che vennero trasformati d’autorità in “lavoratori coatti”, cioè impossibilitati a rientrare in patria.
2. Il gruppo principale dopo l’8 Settembre è rappresentato dai circa 650.000 IMI (Internati Militari Italiani) catturati sui vari fronti di guerra e trasferiti in campi di prigionia in Germania, Austria, Polonia e Ucraina e utilizzati quale forza lavoro coatto (Zwangsarbeiter) e in alcuni casi anche schiavi (Sklavenarbeiter).
3. Altri 100.000 uomini e anche donne furono invece traferiti in Germania quali lavoratori coatti in seguito a rastrellamenti e assunzioni forzate nelle industrie belliche e in minima parte (alcune migliaia) quali lavoratori volontari.
4. Infine c’è il gruppo di circa 40.000 deportati -nel senso letterale del termine – nei campi di concentramento e di sterminio. Tra questi si devono intendere i prigionieri “politici e asociali” catturati durante le operazioni antiguerriglia o di polizia. Inoltre vanno conteggiati i circa 7000 ebrei italiani trasferiti nei KZ nazisti e in parte utilizzati nel lavoro schiavistico.

IMI impiegati nello sgombero delle macerie a Berlino


La prima categoria di lavoratori (che potremo aggiornare con la definizione di Gastarbeiter in uso nel dopoguerra) andò in Germania in base all’accordo bilaterale che prevedeva uno scambio tra la necessità di materie prime dell’Italia e la necessità di manodopera del 3° Reich impegnato nella preparazione del futuro conflitto bellico. Questi lavoratori erano reclutati con una pressante propaganda delle gerarchie fasciste tra gli operai specializzati dell’industria e tra i disoccupati e i braccianti agricoli. A supporto di queste informazioni, sono state presentati dagli studiosi presenti al convegno molti dati e ricerche sulla provenienza geografica e sociale di questa manodopera. Nel nord Italia il personale era reclutato principalmente tra gli operai specializzati o messi a disposizione dalle stesse industrie, questi operai erano allettati dal livello dei salari tedeschi, molto superiore a quello italiano. Nel meridione o nel nord-est gli operai generici e i contadini erano reclutati principalmente tra i disoccupati.
In ogni caso questi lavoratori stipulavano regolari contratti di lavoro, avevano alloggio e vitto regolare ed erano attirati dalla possibilità di poter inviare rimesse di denaro alle famiglie rimaste in Italia. Al termine del contratto potevano rientrare in patria. Queste facilitazioni erano ben indicate nella propaganda di regime, come si legge nei manifesti dell’epoca.
Non tutto era però “rose e fiori” nei rapporti quotidiani con i datori di lavoro e con la popolazione tedesca. Come da testimonianze e informazioni raccolte dall’ambasciata italiana a Berlino, si verificarono numerosi casi di “seri maltrattamenti e percosse che molti immigrati italiani subivano, a tal punto da dover venire talvolta ricoverati sanguinanti o con ossa rotte in ospedale.” Questo avveniva ben prima del periodo bellico e del capovolgimento del fronte nel 1943.

Il gruppo di gran lunga più numeroso è rappresentato dai militari internati (IMI) in Germania dopo l’8 Settembre. In un primo momento furono suddivisi in campi per ufficiali (Oflag) e campi di prigionia per sottufficiali e soldati (Stalag). Secondo la Convenzione di Ginevra gli ufficiali erano esentati dal lavoro, mentre i soldati “potevano” essere impiegati come lavoratori coatti, per esempio molti prigionieri furono impiegati per lo sgombero delle macerie.
Per far fronte alla mancanza di manodopera interna, i tedeschi fecero largo impiego dei soldati prigionieri di ogni nazionalità. Per quanto riguarda gli IMI, al fine di superare ogni difficoltà al loro impiego come lavoratori, le autorità germaniche decisero di trasformare i militari in civili. Ecco quello che scrive in proposito il cappellano militare Giuseppe Barbero nelle sue memorie (La croce tra i reticolati, S.E.T. Torino 1946): “Con il settembre 1944 gli Italiani passarono civili. Dapprima tentarono di «civilizzarli», come dicevamo noi, facendo loro firmare una carta, in cui si dichiarava che volontariamente stipulavano un contratto di lavoro con la ditta. Si rifiutarono quasi tutti di firmare, e allora furono passati civili di autorità. […] Morivano di fame, e sapevano che passando civili si sarebbero trovati meglio, eppure, piuttosto che aderire volontariamente al «Fronte del lavoro tedesco» sarebbero rimasti a lungo a penare fra i reticolati.”

Come vediamo i militari internati non soltanto si rifiutarono nella stragrande maggioranza di aderire all’Esercito della RSI, ma anche si opposero (o meglio, cercarono di opporsi) a partecipare all’economia bellica del Reich.
Arriviamo così al gruppo dei lavoratori “coatti” che dopo l’8 Settembre furono trasferiti in Germania. Molti di loro vennero “catturati” durante azioni di rastrellamento nei territori occupati, altri vennero “precettati” per il Servizio del Lavoro, una parte minore accettò il reclutamento direttamente tramite gli Uffici del lavoro tedeschi presenti in numerose province della Repubblica Sociale. Questi lavoratori “coatti”, che si aggiungevano ai lavoratori già presenti in Germania al momento dell’armistizio erano alle dipendenze di aziende tedesche con contratti più o meno regolari.
Non tutti i lavoratori “coatti” furono inviati in Germania, ma circa altri 100.000 lavoratori precettati rimasero in Italia presso l’Organizzazione Todt impegnata nei lavori di costruzione di bunker e difese militari, nonché nelle infrastrutture stradali e ferroviarie. A questo proposito è stato ricordato durante il Convegno, che l’arruolamento nell’Organizzazione Todt fu utilizzato anche per evitare la deportazione in Germania di personale italiano e di questo approfittarono gli stessi partigiani per sopravvivere durante l’inverno 1944-45.

Siamo quindi arrivato alla tipologia dei deportati nei KZ che furono utilizzati come “schiavi”.
Parliamo quindi dei “politici” inviati a Mauthausen, Flossenbürg, Dachau ecc., nonché degli italiani ebrei deportati nei campi di sterminio e non eliminati immediatamente. Pensiamo tutti alla figura emblematica di Primo Levi, che lavorò in uno stabilimento chimico annesso al Vernichtungslager Auschwitz III.
È poco noto che alcune migliaia di questi “Sklavenarbeiter” erano detenuti comuni prelevati dalle carceri italiane per lavorare in processi particolarmente pericolosi presso aziende chimiche. Senza alcuna prevenzione e sicurezza del lavoro, questi operai avevano un elevato tasso di mortalità e solo in piccola parte riuscirono a tornare “liberi” in patria.
Questi deportati lavorarono in condizioni disperate e disumane a spaccare pietre, a scavare tunnel e fabbriche sotterranee di aerei e armamenti, senza ricevere nulla in cambio tranne misere scodelle di zuppa di rape. Non c’è da meravigliarsi che solo i più giovani e robusti riuscirono a rientrare in Italia dopo la liberazione dai campi di concentramento.

Non è questa la sede per riepilogare i numerosi interventi degli storici presenti al convegno, né ci è possibile nominarli tutti, ma in attesa dell’auspicata pubblicazione degli atti del convegno, abbiamo voluto dare un breve excursus della materia in discussione, non ancora studiata completamente nelle apposite sedi in Italia e in Germania. Come è stato detto al termine delle tre sedute, approfondire l’apporto dei lavoratori italiani all’economia bellica del Terzo Reich è utile alla maggiore comprensione della storia e all’ulteriore miglioramento tra i nostri popoli.

Per approfondire le vicende dei lavoratori italiani in questo periodo, suggeriamo di visitare il museo e il sito internet del Dokumentationszentrum NS-Zwangsarbeit in Berlino (www.dz-ns-zwangsarbeit.de).
Altra importante fonte di informazioni è l’archivio della ANRP che contiene centinaia di migliaia di schede di lavoratori, internati e deportati.
(www.lavorareperilreich.it).


Depliant del Museo di Berlino sul lavoro forzato

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