Quei venti mesi da partigiana in cui ho capito cos’è la libertà

Intervista di Mariachiara Giacosa

È COMINCIATO tutto con un libro, ricevuto in dono per la fine delle scuole elementari. «Avevo dieci anni e mio padre mi ha messo in mano “I miserabili” di Victor Hugo: si è aperto un mondo. Ho capito cose come la giustizia, l’ingiustizia e che da quell’istante la mia vita sarebbe stata indirizzata combattere tutto ciò che era ingiusto». Marisa Ombra ha novant’anni e non si direbbe, se non forse per il passo incerto che non le impedisce di attraversare in lungo e in largo l’Italia per raccontare la sua esperienza nella Liberazione e coltivare la memoria di ciò che è stato. Astigiana, oggi vice presidente nazionale dell’Anpi, è diventata staffetta partigiana a 18 anni con il nome di battaglia “Lilia”.

Come è successo?

«Era l’inverno del ‘42, mio padre viene a casa con una vecchia Remington e mi dice “c’è qualcosa da fare”. Si preparavano gli scioperi del marzo ‘43 e tutta la famiglia, mia sorella più piccola, mia madre ed io, abbiamo lavorato per mesi per produrre volantini, ciclostilati e giornaletti per organizzare le mobilitazioni. Nel 1944, arrestano mio padre che poi evade e ci dice di raggiungerlo nelle Langhe: mia mamma e mia sorella vanno a Gorzegno per continuare il lavoro di stampa partigiana, io divento staffetta».

Cosa ricorda di quegli anni?

«Il senso di liberazione, indipendenza e la responsabilità del fatto che tutto da quel momento sarebbe dipeso da me. Non c’erano più padre, madre o famiglia, c’ero io. Decidevo nel bene e nel male e da ciò che facevo dipendeva la mia salvezza e quella delle persone da cui ero mandata».

Ha mai avuto paura?

«No. Piuttosto ricordo la totale e continua tensione. Sono tornata nelle Langhe due anni dopo e mi sono accorta che avevo memorizzato tutto. Ho riconosciuto ogni sentiero, albero, quasi ogni foglia, perché dietro ogni svolta potevano esserci le brigate nere e i tedeschi e quello mi teneva in allerta, ma paura no».

Dalla Resistenza alla lotta per i diritti delle donne: c’è un filo che lega queste esperienze?

«Quei venti mesi sono stati il primo passo verso la comprensione dell’indipendenza, libertà e capacità delle donne di esserci in quanto persone legalmente riconosciute, e prima di allora non esisteva. Le donne a un certo punto hanno capito che potevano essere qualcosa di diverso e molte l’hanno fatto in modo assolutamente anonimo, senza eroismi, perché in quel momento era necessario».

Di fronte alla confusione di oggi cosa insegna l’esperienza della Liberazione?

«Bisogna fare estrema attenzione a quello che succede, valutare, ragionare, decidere cosa è meglio fare e agire con mezzi adatti al mondo di oggi. Anche dopo il massacro di Parigi, ci vogliono il coraggio di resistere e di non aver paura. Allora servirono molto coraggio, molta voglia di pace. Sono le stesse che, credo, servano ora».

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fonte: repubblica.it

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