Quando ero bambino ero attratto da un fermacarte di bronzo che si trovava sulla scrivania di mio padre, una grossa medaglia che raffigura una figura femminile (la patria italiana) che accoglie i profughi giuliano-dalmati. Sul fronte della medaglia si legge “PRO CASA DI LAVORO PER I PROFUGHI DELLA VENEZIA GIULIA NEL TRENTINO”, sul verso sono raffigurati gli stemmi delle quattro province (Trieste, Pola, Fiume e Zara) e nell’esergo è riportata questa scritta: “A RICORDO DEL SACRIFICIO COMPIUTO DAI FRATELLI DELLA VENEZIA GIULIA E ZARA – 20 FEB 1947”.
Di cosa si tratta e come si è giunti a questi avvenimenti, lo spiega Raoul Pupo con una approfondita analisi storica che ripercorre le vicende del confine orientale italiano a partire dagli ultimi anni dell’impero asburgico fino agli anni ’50 del secolo scorso.
È una lunga storia di violenza politica, scontri di piazza, ribellioni militari, incendi, persecuzioni di minoranze da una parte e dall’altra. Violenza di stato e violenza personale, stragi e deportazioni. La narrazione di questi eventi è stata fatta nei decenni scorsi quasi sempre in maniera parziale e unilaterale, con lo sguardo rivolto spesso ad interessi di parte a fini di bassa speculazione politica, con polemiche ed equivoci sempre alla ricerca del “colpevole”, studiate in una contrapposizione di “chi è stato peggiore di chi”.
In questo volume (Raoul Pupo: Adriatico amarissimo – Una lunga storia di violenza, Laterza 2021, pagg. 300, Euro 20,00) ben documentato da una ricca analisi delle fonti archiviste e bibliografiche, lo storico triestino affronta le complesse e drammatiche vicende che hanno coinvolto le popolazioni italiane, slovene e croate abitanti le zone di confine dell’alto Adriatico. Popolazioni passate in pochi decenni – attraversando due guerre mondiali – dalla sonnolenta dominazione austriaca alla violenta dittatura fascista e nazista e alla brutale dittatura del comunismo post-bellico.
“Amarissimo mare” è la definizione data da Gabriele D’Annunzio nel 1908 al Mare Adriatico, allora dominato dall’impero austriaco con la sua imponente flotta presente nei porti delle “terre irredente” e “amarissimo” è il racconto delle vicende storiche ed umane che per oltre settant’anni hanno vissuto le comunità affacciate sulle sponde di un mare oggi meta preferita da bagnanti e velisti di ogni paese.Raoul Pupo inizia il suo esame partendo dalla contrapposizione tra i nazionalismi di fine ottocento in queste province dell’impero austro-ungarico, contrapposizioni anche violente cui fa da detonatore lo scoppio della prima guerra mondiale, con gli interessi confliggenti degli italiani di unirsi al Regno d’Italia da una parte e il desiderio di sloveni e croati di aderire a una nuova entità sud-slava.
Dopo la disgregazione dell’impero asburgico e l’occupazione italiana delle terre irredente la storia delle violenze inter etniche si avvia su un piano inclinato acquistando sempre maggiore velocità. Le difficoltà dei negoziati al congresso di Versailles non aiutano certo a placare gli animi, essendo le richieste italiane e slave spesso inconciliabili. Inizia così la stagione delle fiamme: assalti e incendi di luoghi simbolo delle due nazionalità si assommano alle lotte sociali e sindacali del biennio rosso. Da una parte le squadre di assalto fasciste e nazionaliste e dall’altra i comitati socialisti e le guardie rosse composte da operai italiani e slavi. Cominciano ad esserci i primi caduti, da una parte e dall’altra con le conseguenti reazioni d’ambo le parti. Comincia una lotta impari tra gli elementi oltranzisti italiani guidati dai fascisti (contrastati in maniera meramente formale dalle forze dell’ordine) e la popolazione slava. Pupo scrive “Quel che per i fascisti è ‘spettacolo di redenzione’, per gli sloveni di Trieste è invece l’inizio di un lungo incubo” con l’incendio del Narodni dom nel 1920 e con gli attacchi alle camere del lavoro e ai circoli culturali sloveni e croati, identificati come il “nemico bolscevico e slavo”.
Con l’unione di Trieste e dell’Istria al territorio del Regno d’Italia e alla presa del potere da parte di Mussolini, comincia un vero calvario per i cittadini di origine slovena e croata. In analogia a quanto fatto nel Sud Tirolo/Alto Adige, il regime fascista avvia una italianizzazione forzata degli slavi, proibendo le scuole slovene e croate, obbligando a parlare italiano in pubblico, mutando d’ufficio nomi e cognomi slavi, per cui Josip divenne Giuseppe e il cognome Smerchining si trasformò in Marchini. Chi non si adeguava incorreva in bastonature o doveva trangugiare l’olio di ricino.
Pupo ricorda che particolarmente “sfortunato” fu il clero slavo, bastonato prima dai fascisti perché troppo vicino ai loro parrocchiani di origine slava, e poi perseguitato dopo il 1945 dalle autorità comuniste, durante la campagna antireligiosa.
Cominciamo quindi a vedere che in questi conflitti è difficile distinguere “noi” e “loro”, perché il conflitto non è solo culturale e linguistico ma anche sociale e di classe. Popolazioni rivierasche a maggioranza italiana e retroterra contadino a maggioranza slovena e croata. Borghesia cittadina italiana e proletariato operaio slavo. Un intreccio inestricabile di interessi divergenti in un’altalena di potere politico legato in seguito alle diverse sorti del secondo conflitto mondiale.
La stagione delle stragi, dopo la stagione delle fiamme, comincia nell’aprile del 1941 con l’invasione del regno di Jugoslavia da parte dell’esercito italiano e della Wehrmacht. L’annessione al Regno d’Italia della provincia di Lubiana, l’occupazione della Dalmazia e del Montenegro, l’appoggio italiano allo stato croato di Ante Pavelic comportano l’inizio della guerra partigiana jugoslava contro le truppe occupanti, italiane comprese. Guerriglia e controguerriglia sempre più spietate d’ambo le parti; deportazioni e campi di concentramento (Isola d’Arbe) per uomini e donne , vecchi e bambini sloveni; incendi di villaggi ed esecuzioni di massa di civili quale rappresaglia per le morti di soldati italiani; conflitti atroci all’interno delle componenti slave fasciste (ustaša) e nazionaliste (četnici) e comuniste titine, con vittime tra le popolazioni di ogni etnia.
Dopo la caduta del fascismo e l’8 settembre “tutto si fa maledettamente complicato”. Liquefattosi l’esercito italiano, abbandonati al loro destino gli stati fantocci creati dagli occupanti, prende sempre più vigore la resistenza comunista guidata da Josip Broz Tito, che non nasconde l’intenzione di annettere l’Istria e Trieste alla Jugoslavia. Le truppe tedesche non sono in grado di sostituire immediatamente le autorità italiane, per cui all’inizio sono i partigiani jugoslavi a subentrare nell’autunno 1943 alle istituzioni italiane nelle terre contese, il tutto “in un clima generale di resa dei conti”. Iniziano processi sommari per “la punizione dei responsabili di vent’anni di crimini” e “dei nemici del popolo” con conseguenti incarcerazioni, sparizioni e fucilazioni, punizioni non sempre distinguibili dalle “tante faide famigliari/nazionali che hanno insanguinato l’Istria”. È in questa temperie che nasce il termine “infoibare” per indicare l’utilizzo delle caverne carsiche come fosse comuni delle salme dei morti.
Come ricorda Pupo, la memoria delle foibe “affonda le sue radici in un colossale trauma collettivo le cui dimensioni vanno ben al di là del semplice dato numerico”, oggi notevolmente amplificato da alcuni settori politici di destra per mere ragioni di propaganda politica.
Ben maggiore è il numero delle vittime delle truppe tedesche dopo la creazione della Operationszone Adriatisches Küstenland, che brutalmente fanno terra bruciata attorno alla resistenza armata, annientano la comunità ebraica di Trieste, istituiscono un campo di concentramento nella Risiera di San Saba, l’unico in territorio italiano dotato di forno crematorio.
Fino all’aprile 1945 è un continuo di arresti, torture, rappresaglie con fucilazioni e impiccagioni pubbliche, che “rappresentano […] il momento in cui nelle provincie giuliane prevalgono nettamente le logiche politiche e repressive proprie dell’Europa orientale”. In questo i nazisti sono coadiuvati attivamente da elementi fascisti italiani come la famigerata Banda Collotti o dalla cosiddetta “Armata del Don” composta da cosacchi filonazisti insediati in Friuli.
A rendere ancor più complicate le cose in queste terre di confine è l’antagonismo esistente all’interno della resistenza italiana tra la componente comunista filo jugoslava e le brigate dei partigiani non comunisti. Raoul Pupo dedica ampio spazio a questo conflitto interno alla resistenza italiana, in cui si intrecciano lotta di liberazione e lotta di classe, difesa dei confini nazionali e internazionalismo comunista. Lotta fratricida culminata nel tragico episodio della Malga di Poržus.
Terminata l’occupazione tedesca con la fine del Terzo Reich comincia una nuova e ulteriore fase tragica che Pupo chiama Primavera di sangue. Nei territori jugoslavi la presa del potere da parte delle vittoriose armate partigiane “coincide con la presa del potere comunista […] e da un bagno di sangue” ai danni degli ustaša, četnici e domobranci, colpevoli di essere stati alleati dei nazi-fascisti. A queste forme di giustizia sommaria non sfuggono naturalmente i fascisti attivi nella RSI, ma non solo, che finiscono in campi di detenzione o addirittura nelle foibe, nell’ordine di alcune migliaia di vittime “[di] una rivoluzione nello stesso tempo nazionale e sociale”.
Si arriva quindi al capitolo del Dopoguerra senza fine, il periodo tra l’istituzione del Territorio libero di Trieste fino al 1954, con la definitiva divisione tra Zona A (Trieste) annessa all’Italia e Zona B (Capodistria) annessa alla Jugoslavia, alla quale era già stata assegnata dal Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) l’Istria con Fiume e Zara.
Il trattato di pace prevedeva l’opzione per gli italiani tra restare nei territori ceduti o emigrare in Italia. L’opzione si trasforma ben presto nella scelta se stare al di qua o al di là della cortina di ferro, tra mondo occidentale o sistema comunista. Scelta resa ancor più complicata nel 1948 dalla sconfessione del regime di Tito da parte di Stalin e la conseguente espulsione della Jugoslavia dal Cominform, per cui anche i comunisti italiani rimasti in Jugoslavia sono costretti ad emigrare per evitare i campi di rieducazione, in quanto considerati cominformisti.
Insomma, il tutto è sempre più complicato e si arriva all’ultima ondata di profughi, anche tra chi aveva deciso di restare. Come ricorda Pupo, non si è trattato in senso stretto di pulizia etnica (né tanto meno di genocidio!), ma di sostituzione etnica, perché i circa 300-350 mila profughi sono stati sostituiti nelle località costiere abbandonate dagli italiani da jugoslavi provenienti da altre regioni.
Oggi noi possiamo finalmente superare la fase della ricerca di “chi è stato peggiore di chi”, dove tutto si sovrappone, ma dove invece inizia un nuovo percorso con il confine orientale che non divide, ma unisce le tre nazionalità, italiane slovene e croate, sotto l’unica bandiera dell’Unione Europea.
Agostino Botti
Magonza, febbraio 2022