Giorno della Memoria 2022
“Non lasciamoci condurre al macello come pecore!”
Storie di Resistenza ebraica in Europa
Victor Klemperer, professore di Filologia romanza all’Università di Dresda, subì le angherie e le persecuzioni della Gestapo, ma non si piegò mai. Allontanato dall’insegnamento universitario perché di famiglia ebrea, ancorché di religione protestante, sopportò la requisizione dell’automobile, della radio e del telefono, gli sequestrarono anche le medaglie al merito ottenute sul fronte di guerra, alla quale partecipò come volontario. Infine gli tolsero la casa e fu costretto a risiedere in un Judenhaus e a lavorare forzatamente per l’industria di guerra. In questa sua resistenza alle imposizioni naziste Klemperer fu aiutato dalla moglie “ariana” Eva Schlemmer, che non cedette alle intimidazioni e alle minacce dei nazisti affinché divorziasse e abbandonasse il marito ebreo. In questo modo Victor Klemperer riuscì ad evitare fino al febbraio 1945 la deportazione. Approfittando del caos seguito al tragico bombardamento di Dresda, i due riuscirono a fuggire dalla città in fiamme e si rifugiarono in campagna presso la loro ex donna di servizio, che li nascose fino all’arrivo dei liberatori.
Victor Klemperer, con grave rischio personale, tenne dal 1933 al 1945 un diario giornaliero per Testimoniare fino all’ultimo, come dal titolo con il quale furono pubblicati dopo la guerra i suoi diari. Siamo quindi di fronte a tre casi di resistenza: Klemperer che non molla e scrive giornalmente quello che accade non solo a lui, ma all’intera società tedesca; sua moglie Eva che si rifiuta di divorziare e non abbandona il marito ebreo al suo destino e infine la ex cameriera che nasconde i fuggiaschi in campagna.
Questa estensione del concetto di resistenza, cioè non solo la resistenza con le armi, è oggi ampiamente accettato dagli storici, come possiamo riscontrare nell’ultimo saggio di Daniele Susini, il quale ha studiato le varie forme di resistenza messe in atto dalla popolazione ebraica nell’Europa occupata dai nazisti (La resistenza ebraica in Europa – Storie e percorsi 1939-1945, Donzelli Editore, Roma 2021, pagg. 239, € 28).
Il testo di Susini contiene numerosi esempi di opposizione al regime nazista, che vanno dall’esortazione del comandante partigiano ebreo Abba Kovner che nel 1942 da Vilna – Lituania – sollecitava i giovani a non essere “come pecore portate al macello”, al contrabbando di cibo e vestiti nei ghetti e all’interno dei campi di concentramento, “che permise un minimo miglioramento delle condizioni di vita”. Anche mantenere in vita clandestinamente le pratiche religiose e le scuole rabbiniche, attività assolutamente proibite e passibili di pena di morte, ha rappresentato una forma di resistenza. Altro esempio di resistenza furono le mense e gli ospedali più o meno clandestini operanti in varie località, come anche l’istituzione di una scuola d’arte all’interno del campo di Theresienstadt da parte dell’artista Friedl Dicker Brandeis, che fu in seguito uccisa ad Auschwitz. Anche chi sabotava la produzione industriale durante il lavoro coatto compiva un’opera di resistenza.
Susini cita lo storico israeliano Yehuda Bauer per il quale “il concetto di resistenza, in una condizione come quella della Shoah, che prevedeva come unico fine la morte di ogni singolo ebreo, non poteva essere relegato negli angusti confini della Resistenza armata, ma doveva dunque comprendere un più variegato spettro di comportamenti civili o spirituali.”
Questo concetto è ben presente nella storiografia tedesca contemporanea, nella quale la parola Widerstand (resistenza, opposizione) viene utilizzata sia quando si parla di guerra partigiana ingaggiata contro i nazi-fascisti dai resistenti russi, jugoslavi, dal maquis francese e dai partigiani italiani, ma anche per indicare gli oppositori (Widerständler) tedeschi che non imbracciarono le armi – né avrebbero potuto – per combattere contro il regime, ma utilizzarono altre forme, come gli attentatori del 20 luglio 1944 o il volantinaggio all’Università Monaco svolto dalla Rosa Bianca da Hans e Sophie Scholl, fino all’orientamento esplicitamente antinazista della Chiesa luterana confessante di Dietrich Bonhoeffer. Non dimentichiamoci che tutti questi Widerständler finirono sul patibolo.
Tornando al saggio di Daniele Susini, troviamo un’analisi dei fatti “che contrasta […] l’idea comune della passività degli ebrei nella Shoah, disegnando un campo molto più ampio, problematico e diversificato di quelle che furono […] le strategie di sopravvivenza degli ebrei perseguitati”. Questo avviene, ricorda Susini, spostando il punto di vista dai carnefici alle vittime. I carnefici avevano tutto l’interesse ad alimentare il mito della passività ebraica, quasi a farli sembrare colpevoli del loro stesso destino. Nel dopoguerra, la narrazione della Shoah sottolineò questo aspetto con le immagini pietose della liberazione dei campi di concentramento e di sterminio: immagini e resoconti che facevano vedere solo “lo stato di prede inermi in cui erano stati ridotti gli ebrei”.
Per contrastare questa visione l’autore ripercorre, nel capitolo “Storie di resistenza”, episodi e fatti noti e meno noti, specialmente quelli narrati dalle fonti e dalla memorialistica non tradotta in italiano.
Numerosi sono i casi di resistenza armata citati, sovente suicidari perché destinati a finire miseramente contro le soverchianti forze naziste, ma i combattenti ebrei lo fecero “per [ottenere] tre righe nella storia. Per questo la nostra gioventù combatte e non si sottomette come un gregge di pecore al carnefice. Per questo vale la pena di morire”, come riferisce Susini citando le parole di Dolek Liebeskind capo della resistenza di Cracovia.
Oltre a narrare l’episodio più famoso in occidente, la rivolta del ghetto di Varsavia del 1943, il libro si sofferma anche sulle rivolte nei ghetti di Minsk (Bielorussia), Riga (Lettonia) e Białystok (Polonia), che avevano lo scopo di far fuggire dai ghetti il maggior numero possibile di ebrei, che in molti casi riuscirono a nascondersi e sopravvivere nelle foreste circostanti oppure, se giovani, ad unirsi alle brigate partigiane operanti nei dintorni.
L’accoglienza degli ebrei nelle formazioni partigiane dell’Europa orientale non fu sempre facile, anzi molte volte fu osteggiata dal prevalente atteggiamento antisemita delle popolazioni polacche e bielorusse. Migliore accoglienza fu riservata agli ebrei nelle formazioni comuniste russe.
Come è stato detto, molte azioni di resistenza armata portarono alla morte i rivoltosi, cosa che avvenne puntualmente con le rivolte nei campi di sterminio di Treblinka, Sobibór e Auschwitz-Birkenau e in altri 18 campi di lavoro, ma “lo scopo […] fu duplice: interrompere la catena di morte e dare un segnale al di fuori che si era combattuto e resistito”.
Più avanti Susini si sofferma sulle operazioni di salvataggio, altra forma di resistenza all’oppressore nazista, soffermandosi sulle numerose organizzazioni, ebraiche e gentili, che organizzarono la fuga o l’occultamento degli ebrei adulti e bambini nei territori occupati, con un esito il più delle volte positivo, malgrado “l’atteggiamento […] delle popolazioni europee d’indifferenza, se non di collaborazione attiva con i nazisti allo sterminio”.
Nel testo sono riportati i principali esempi di operazioni di salvataggio e protezione che hanno avuto parzialmente o significativamente esito positivo. In Belgio le organizzazioni clandestine riuscirono a salvare il 50% della popolazione ebraica. In Danimarca, anche per il fermo atteggiamento dello stesso Re Cristiano X che indossò ostentamene la Stella di David, la popolazione danese mise in salvo ben il 95% degli ebrei presenti nel paese al momento dell’occupazione tedesca. In Francia si salvò il 70% della popolazione ebraica, che dovette fare i conti non solo con gli occupanti tedeschi ma anche con la polizia di Vichy. In questi paesi furono riconosciuti da Israele parecchie migliaia di Giusti tra le Nazioni.
Ben altra fu la sorte degli ebrei in Polonia che solo in 150 000 riuscirono a nascondersi, malgrado l’impegno delle organizzazioni clandestine di salvataggio quale la Żegota.
In Ungheria, dove circa l’80% della popolazione ebraica morì nei campi tedeschi o fu fucilato in loco, sono conosciute le attività sia di organizzazioni clandestine ebraiche che dei diplomatici stranieri che produssero documenti e passaporti falsi per centinaia di migliaia di ebrei, riuscendo a farli espatriare e a metterli in salvo. In Italia è ben nota l’attività svolta a Budapest da Giorgio Perlasca.
Susini nota che “i salvataggi ancora oggi non sempre sono considerati una forma di resistenza a tutti gli effetti. […] Le storie descritte mostrano come tali atti sottendessero comunque una reazione al progetto nazista di totale cancellazione dell’ebraismo; […] salvare anche una sola vita era un modo per dare continuità al proprio popolo”.
Infine nell’ultimo capitolo l’autore si concentra sulla resistenza ebraica in Italia, che sotto certi aspetti è un unicum in Europa. Le comunità israelitiche presenti nelle regioni centro-settentrionali (il meridione governato dagli spagnoli espulse gli ebrei dal Regno di Napoli e dalla Sicilia nel 1510) erano ormai perfettamente integrate nel Regno d’Italia. La loro presenza era addirittura bimillenaria a Roma.
Numerosi patrioti risorgimentali erano ebrei, parecchi di loro ebbero incarichi governativi di grande rilievo dopo l’unità d’Italia, come ad esempio Sidney Sonnino, che fu a lungo ministro degli esteri. A Roma viene ancora portata ad esempio l’opera del repubblicano e mazziniano Ernesto Nathan, sindaco della capitale all’inizio del ‘900
I cittadini italiani di religione ebraica militavano politicamente sia nelle file monarchiche che in quelle repubblicane, sia nei partiti socialisti che in quelli conservatori. È inutile farne i nomi, l’elenco sarebbe troppo lungo.
Molti di loro, interventisti e nazionalisti, combatterono per la Patria durante la I Guerra Mondiale. Dopo la guerra ognuno sviluppò il proprio atteggiamento nei confronti del fascismo, non su scelte ebreo/non ebreo, ma in base alle opinioni politiche personali: molti aderirono fin dalla prima ora al fascismo e ben 230 parteciparono alla marcia su Roma. Contemporaneamente altri si schierarono numerosi con l’antifascismo iniziale e subirono arresti, carcerazione, confino ed esilio, non come ebrei, ma come oppositori al regime fascista.
“È importante qui ricordare che il movimento fascista prima e il regime non furono […] antisemiti fino al 1938, [quando] risultavano iscritti al Partito fascista 10 370 su 37 241 [ebrei]”.
Nel 1938 “arrivò il fulmine a ciel sereno”, cioè vennero promulgate in Italia le Leggi razziali, con l’espulsione dei cittadini italiani ebrei dalle scuole, dalle università e dal pubblico impiego. Gradualmente essi furono anche allontanati dal mondo economico e dalle libere professioni.
Che la discriminazione “razziale” sia arrivata in Italia come un “fulmine a ciel sereno”, Susini ha qualche dubbio. perché “il regime si era mosso in tal senso già […] un paio d’anni prima”. Questa è anche la tesi di Michele Sarfatti che aggiunge un punto interrogativo all’espressione “fulmine a ciel sereno” (cfr. M Sarfatti, “Wie ein Blitz aus heiterem Himmel”? Die faschistische Rassengesetzgebung von 1938, in Jüdische Schicksale im faschistischen Italien, L.-M.-Universität München, Abteilung für Jüdische Geschichte, Heft 2 2021), il quale riporta che in importanti ambienti delle comunità israelitiche e tra gli antifascisti ebrei c’era molta preoccupazione per i crescenti segnali di antisemitismo in Italia, anche se non sfociarono, come in altri paesi, in violenze e pogrom.
Tornando al testo di Daniele Susini e al contributo degli ebrei alla resistenza italiana, si trovano parecchi esempi di “resistenza alternativa” alla persecuzione: la creazione di scuole, assistenza agli ebrei stranieri e autoctoni, episodi di dissidenza pubblica, volantinaggio, ecc. spesso con il contributo di cittadini non ebrei. Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, ma principalmente dopo l’armistizio dell’8 Settembre 1943, “si passò dalla ‘persecuzione dei diritti’ alla ‘persecuzione delle vite’, il che costrinse gli ebrei [ad attivare] varie forme di resistenza, compresa quella armata”.
Susini sottolinea la specificità della partecipazione degli ebrei italiani alla lotta partigiana, i quali, a differenza di altri paesi, non costituirono unità di soli ebrei, ma i circa 1000 combattenti e i 2000 patrioti entrarono a far parte delle varie brigate partigiane principalmente in base alle proprie idee politiche, confermando quindi la convinzione di essere innanzitutto italiani, anche se di altra religione.
Susini riporta molti esempi di noti antifascisti e partigiani ebrei, dai fratelli Rosselli a Eugenio Colorni, caduti sotto i colpi dei fascisti; da Primo Levi a Emanuele Artom (ucciso dai nazisti), da Elio Toaff a Leo Valiani ed Emilio Sereni. Tutti nomi che hanno fatto la storia dell’antifascismo prima e della Repubblica italiana poi. Al termine della lettura del libro, lettura facilitata da una scrittura scorrevole e da un ampio supporto iconografico, da tabelle statistiche e cartine geografiche, concluderei con la considerazione finale di Susini, che aiuta a capire la particolarità della Shoah: “Spostando l’attenzione dai rari ed eclatanti gesti eroici e di resistenza armata […] ai comportamenti ordinari e quotidiani, che furono diffusi nelle comunità ebraiche, si è cercato di passare […] a un quadro composito di comportamenti e di figure resistenti: non solo i partigiani, le spie e i ‘politici’, ma anche gli intellettuali, i rabbini, le infermiere, gli insegnanti, gli attori teatrali, i musicisti, e soprattutto gli ebrei comuni che con la loro lotta senz’armi hanno tentato di opporsi al progetto genocidario dei nazisti”.
Agostino Botti
Magonza, gennaio 2022